Come la Cecenia è diventata l’inferno degli omosessuali sotto gli occhi del mondo

È tornata d’attualità negli ultimi giorni la drammatica condizione degli omosessuali in Cecenia, con almeno due vittime torturate a morte e una quarantina di nuove detenzioni illegali, secondo quanto riportato dall’organizzazione non governativa Russian LGBT Network. I prigionieri sarebbero stati portati ad Argun, cittadina dieci chilometri a est della capitale Grozny, e qui spogliati di ogni documento per scongiurare fughe all’estero, costretti a firmare dichiarazioni autoaccusatorie in bianco e minacciati di ritorsioni verso i familiari in caso di ricorso alla giustizia.

L’ondata di persecuzioni omofobe, ripresa a fine dicembre scorso, non è purtroppo una novità per la piccola repubblica a maggioranza islamica: già ad aprile 2017 venne alla luce l’agghiacciante “omocausto” perpetrato ai danni di centinaia di presunti gay, rinchiusi in campi di concentramento con l’accusa di omosessualità per poi essere torturati e, in troppi casi, uccisi. Fortunatamente all’epoca non tutti i documenti vennero confiscati, ragion per cui diverse persone riuscirono in qualche modo a riparare all’estero – principalmente in Germania, Lituania, Olanda e Canada, paesi che garantirono quasi immediatamente il visto per ragioni umanitarie ai rifugiati ceceni.

La Cecenia, territorio russo incuneato tra le montagne del Caucaso al confine con la Georgia, ha vissuto una storia travagliatissima fin dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica: le due guerre di secessione dall’autorità di Mosca, durate oltre quindici anni, sono terminate solo nel 2009 lasciando sul terreno una mole enorme di caduti, da ambo le parti. Da allora si è installato un governo filo-russo presieduto da Ramzan Kadyrov, che già due anni orsono respinse fermamente ogni accusa di violazione dei diritti umani, arrivando addirittura a sostenere che in Cecenia i gay non esistano affatto, poiché nel caso «ci penserebbero i familiari a mandarli là da dove non si torna»: veri e propri delitti d’onore, di cui il presidentissimo è da sempre acceso sostenitore.

In questi giorni sono stati invece il ministro dell’informazione Dzhambulat Umarov e il portavoce del leader Alvi Karimov a negare le nuove violenze, bollate come assurdità senza fondamento, atte a minare la serenità di una repubblica molto distante, in tutti i sensi, dalla “pervertita Europa”: qui infatti, nella “benedetta terra del Caucaso”, non potrebbero mai attecchire “i semi della sodomia”. Parole che la dicono lunga su che aria si respiri da quelle parti.

Ramzan Kadyrov in compagnia di Vladimir Putin


La Russia
, che formalmente controlla il territorio ceceno, ha espresso tramite Vladimir Putin la (teorica) volontà di investigare sulle atrocità commesse dalle autorità di Grozny, in accordo con le leggi internazionali sui diritti umani. Nel concreto però nessuna indagine è mai stata aperta, a conferma delle parole del direttore del Russian LGBT Network Igor Kochetkov, secondo cui il potere russo sull’ex repubblica ribelle è solo apparente: di fatto la Cecenia è ridotta ad una sorta di far west in cui l’unica legge è rappresentata da Ramzan Kadyrov, in grado di fare il bello e il cattivo tempo sui cittadini. L’unica speranza sarebbe trascinare il dittatore davanti a un tribunale internazionale, ma purtroppo, senza la collaborazione del Cremlino, appare ad oggi un’ipotesi abbastanza remota.

E l’Italia? 16 stati membri dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) hanno invocato il Meccanismo di Mosca, strumento che consente di avviare un’inchiesta internazionale sulle violazioni delle libertà fondamentali nel vecchio continente. Tra questi non vi è purtroppo il nostro Paese, finora del tutto indifferente alla questione cecena, avendo tra le altre cose negato qualsiasi forma di asilo e protezione ai sopravvissuti alle violenze. Non sono mancate però le voci fuori dal coro, come testimoniano l’interrogazione parlamentare portata in aula dal deputato del PD Alessandro Zan e la richiesta d’intervento inoltrata al ministro Tria, in trasferta in Russia, da parte del presidente dell’Associazione Radicale Certi Diritti Yuri Guaiana. Speriamo che qualcosa si muova, anche nelle stanze dei bottoni a Roma.

 

Ubik

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