Sarei un gay felice in provincia?

Questa è la domanda che mi sta balenando in testa da un po’ di tempo. Sono nato a Milano la grande città, ma sono cresciuto a Brescia, anzi per la precisione tra i 38 mila abitanti di Rezzato, alle porte della Leonessa d’Italia.

Penso che per alcuni ragazzi gay come me, la vita di provincia non sia propriamente su misura per noi. Alla ricerca del grande sogno, qualsiasi esso sia, di una chance lavorativa, dell’indipendenza economica, sentimentale e perché no alla ricerca di quella sensazione di brivido che un lavoro mal pagato, una malattia venerea e due vodka tonic regalano ad anime conturbate nel fiore dei 20 anni, in pieno stile Madonna degli anni ’80.



Scappati da una realtà soffocante e rigida, per nulla open minded e dove le persone sono sempre le stesse, i luoghi sempre quelli, le dinamiche sempre uguali. Innestati nella metropoli dalle mille possibilità, dove puoi essere chi ti pare, ottenere tutto quello che vuoi quando lo vuoi. È lì, basta prenderlo… o aprire un app. La metropoli in un telefono.

Contatti, persone, cibo, serate. Tutto fa parte dell’evoluzione che rende la grande città ancor più individualista, solitaria e paradossalmente meno eccitante e per poi fare selezione con un double tap e finire nel corso degli anni, quando il luccichio della novità sparisce, a frequentare gli stessi posti, le stesse persone e a vedere le stesse dinamiche. Lamentandoci, con quel tedioso e onnipresente senso di ansia misto stress che ci perseguita H24: il tempo, mai abbastanza.

Allora comincia la sequela di conati laconici del lavorare troppo, ma cosa si pretende da una città dove in 5 anni passi dal portare i caffè a dirigere le vendite di un marchio incontrando i pezzi grossi del mercato.

Cominciano le lamentele del non aver mai abbastanza tempo per andare in palestra, per cominciare quel corso di cucina o imparare quella lingua esotica. Ti lamenti del vile denaro, sebbene sappia benissimo di prendere uno stipendio privilegiato, sembra non bastare mai perché hai troppe cose da pagare e crescendo ti rendi conto di quanto fare shopping e bere allo sfinimento sono voci da depennare dalla lista “uscite” del conto.



Non sto toccando il lato sentimentale perché fortunatamente sono sposato e ho trovato la mia metà mela bruciando le tappe di una gioventù mondana che ha iniziato presto a starmi stretta. Ma lo vedo. I miei più cari amici, single di 30 anni, bellissimi e malinconici come un quadro di Degas. Loro trovano controvoglia il tempo di mantenersi in forma fino alle 11 di sera, perché non hanno una persona (o non la vogliono) con cui condividere la cena. Innamorati della propria indipendenza, stancati anche di quella.

E allora alla fine della giornata mi chiedo perché? Perché mi sembra di essere tornato al punto di partenza se ho cambiato interamente la mia vita? Persone, network, locali, lavoro, colleghi. È tutto nuovo. Ma ne vale la pena?

Ora che ho un bagaglio decennale composto da Università, viaggi e lavoro, meeting a Tokyo, New York e Parigi, mi rendo conto che tornare indietro alla provincia non suona affatto male. L’anno scorso ho preso 52 voli (in pratica uno la settimana). Ho visto mio marito per un totale di 8 mesi (su 12), vissuto a casa nostra rigorosamente in affitto per 6 mesi (su 12), mangiato cibo d’asporto per pigrizia il 65% del tempo a Milano.

In effetti, lasciare il management per lo stile di vita più tranquillo e più vicino alla famiglia, agli amici veri e alla “casa” non mi suona più così male. Cucinare cibo con amore, condividerlo con amici in un salotto senza sembrare scatole di sardine… sogno.

Mentre scorro i feed Instagram dei miei compagni delle elementari, che sono rimasti vita natural durante nello stesso paesino con le loro case di proprietà, mi capita di chiedermi: «E se la vita in provincia non fosse così malvagia? Se la città a misura d’uomo ti desse l’occasione di avere quel tempo che continui ad inseguire?».

Poso il telefono sul lavandino e guardando la mia faccia allo specchio stanca e che martorio per combattere le occhiaie e le rughe e mi dico: «Se fosse davvero l’occasione di poter comprare casa ad un prezzo accessibile, avere anche tu una proprietà che non siano le ciabattine di Gucci comprate ad una svendita? Di godermi un giardino e avere un cane. La mia chance di essere sereno. Forse la Renovatio che stavo aspettando?».



Immagino in realtà di essere solo preoccupato di dover scegliere tra la carriera da sogno e la vita da serie LGBT di Netflix e la certezza della tranquilla vita rurale che mi impedirebbe di diventare un 60enne grasso, acido e single perché a Milano il lavoro viene prima di tutto e prima o poi mio marito si stuferà anche di me – oddio spero di no. So che né io, né quasi nessuno lo farà davvero. Cambiare di nuovo intendo. Ma avere un sogno è tutto quello che abbiamo e che ci rende persone migliori alla fine della giornata.

Penso che sia possibile non dover scegliere tra la vita sparkling gay della grande città e la vita di provincia. Le persone queer esistono in molti luoghi al di fuori delle grandi città, forse come diceva Aristotele in medio stat virtus.

Non lo so ancora, forse un giorno ci scriverò un libro.

 

Foto di Michael Ceglia
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2 thoughts on “Sarei un gay felice in provincia?

  1. Ciao mi chiamo Luca, sono un ragazzo gay che abita in provincia, purtroppo nell’ultimo periodo sto iniziando a sentire l’angoscia di non avere un fidanzato , nei dintorni ce ne sono pochi di ragazzi gay ( neanche uno incontra i miei gusti) e quando sono andato al Pride Village di Padova mi sono sentito ancora peggio, penso che dal punto di vista sentimentale per un ragazzo gay sia di gran lunga meglio la città ( e ho tralasciato i pregiudizi dei paesani ovviamente)

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