Per l’Ordine dei giornalisti del Lazio è lecito chiamare le donne trans al maschile

Ha dell’incredibile la risposta ricevuta dall’attivista LGBT+ Massimo Piagentini da parte dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio in seguito al suo esposto nei confronti di Aldo Grandi, il direttore responsabile de La Gazzetta di Lucca.

Il tutto ha inizio a gennaio, quando una donna transgender di Altopascio, in preda alla disperazione per la notifica dello sfratto, si è tolta la vita dandosi fuoco. Come succede solitamente in questi casi, la stampa locale e quella nazionale hanno dato vita al misgendering, identificando la donna come «un trans brasiliano» o «un uomo brasiliano», cancellando dunque la sua identità di genere, e riportando il dead name, vale a dire il nome maschile assegnatole alla nascita.

L’attivista LGBT+ lucchese Massimo Piagentini denunciò la scarsa sensibilità e preparazione dei giornalisti che avevano erroneamente indicato la defunta come un uomo, ricevendo la dura replica di Aldo Grandi, che in un articolo definiva l’identità di genere «aria fritta» e scriveva:

«Per tutti il povero trans morto dopo aver tentato di dare fuoco alla propria abitazione era un uomo. Inequivocabilmente. Anche se avrebbe voluto essere una donna, ma donna non era»

L’esposto di Piagentini è stato respinto dal Consiglio di Disciplina dell’Ordine territoriale del Lazio, ritenendo di «non dover procedere nei confronti del giornalista, poiché non si riscontrano elementi contrastanti le norme di Deontologia e di Disciplina professionali».

Per l’Ordine, Grandi è in «buona fede», poiché alterna alle frasi di polemica toni di comprensione come «a noi umanamente dispiace per ciò che è successo ad Altopascio». Viene tuttavia sottolineato che poteva essere usato «un linguaggio più consono e meno colorito nei confronti dell’identità di genere del soggetto in questione, un [sic!] transessuale brasiliano».

Non è tanto la decisione a far riflettere, quanto il fatto che è lo stesso Ordine dei giornalisti a far riferimento alla defunta all’interno del documento ufficiale usando il maschile. «Il collegio, all’unanimità, ha rigettato il mio ricorso. Non poteva essere altrimenti dato che i membri di quell’organo si esprimono esattamente come l’autore – afferma Massimo Piagentini a NEG Zone – Se coloro che dovrebbero vigilare sul rispetto della deontologia professionale si esprimono così, siamo messi davvero bene».

Non mi sento di dar torto all’attivista lucchese, dato che nella mia personale esperienza di attivista e blogger di un sito LGBT+ mi imbatto sovente in articoli in cui le donne trans vengono chiamate «il trans», viene fatto loro deadnaming, la loro identità di genere viene usata come sinonimo di prostituta o, nella migliore delle ipotesi, viene indicata nel titolo anche se non attinente alla notizia. Qualche volta la segnalazione dell’errore viene accolta, che è sintomo di buona fede e di una mancata o carente formazione sui temi LGBT+, altre volte viene ignorata o, come nel caso sopraccitato, viene rincarata la dose di misgendering.

«A chi non lo sperimenta su di sé, può sembrare un dettaglio da poco – spiega l’attivista transgender Storm in un articolo di TMW Italia – ma venire chiamat* (ripetutamente) con la desinenza o l’articolo errato può indurre disforia (il profondo disagio che la persona prova per alcune parti del proprio corpo), può far sentire le persone in pericolo (le donne trans vengono uccise e picchiate perché non sembrano abbastanza donne) ed è una forma di crudeltà inutile e una mancanza di rispetto».

 

In copertina alcuni titoli di quotidiani italiani su notizie riguardanti donne transgender.