Se l’indagata è trans, la sua identità di genere finisce nei titoli tra misgendering e deadnaming

Se Patricia è colpevole lo stabilirà la giustizia. Indagata per l’omicidio di un calciatore 22enne a Perugia, la donna trans ha raccontato che si erano incontrati per un rapporto sessuale a pagamento, che è degenerato quando il ragazzo l’avrebbe aggredita, dando vita a una colluttazione finita in tragedia. Lei ha quattro costole rotte e segni sul viso, lui invece è stato ritrovato morto.

Nel frattempo, il compito dei media sarebbe quello di fare un’informazione corretta ed etica. La maggior parte dei quotidiani indica l’identità di genere dell’indagata già nel titolo, usando la parola “trans” come sostantivo. Praticamente è come scrivere “il gay”, “la lesbica”, “il nero” per indicare il/la protagonista della vicenda in un titolo. Per fortuna accade ormai di rado, lo continuano a fare alcuni giornali di destra per indicare la nazionalità dei migranti, ma per quanto riguarda le persone trans siamo ancora all’età della pietra.

Quante volte avete letto “Cisgender rapina un supermercato” o “Cis indagata”? Mai. E non si capisce perché si dovrebbe specificare l’identità di genere visto che non ha nessun nesso con la vicenda. Semmai può averlo il fatto che Patricia fosse una sex worker. Ma, di nuovo, trans non è sinonimo di sex worker, sebbene la stampa continua a dire “trans” al posto di “prostituta”, quendo questa non è cisgender.

Completano il quadro il misgendering e il deadnaming, con Il Giornale che riesce persino a usare due generi diversi nella stessa frase e quotidiani locali che riportano il nome anagrafico, precisando però che è “detto” Patricia. Anche chi intervista la donna, usando i pronomi corretti, arriva a fare domande come il suo reddito mensile. Che siano vittime o carnefici, la rappresentazione delle persone trans nei media è spesso distorta, umiliante o strumentalizzata per stuzzicare pruriginose curiosità.