HIV e stigma: la quotidianità di una persona sieropositiva

Nonostante l’HIV sia presente in Italia da quarant’anni, lo stigma attorno a questa infezione è ancora enorme. Le persone sieropositive, infatti, vengono spesso viste come sbagliate, “merce avariata” da cui stare lontanз. Ciò, in gran parte, è dovuto a una mancanza di conoscenza dell’HIV, rimasto nell’immaginario collettivo alle pubblicità progresso degli anni ’90 in cui lз sieropositivз erano circondatз da un allarmante alone viola.

Alessandro Uva è un ragazzo gay, sieropositivo con viremia azzerata. Non ha aloni viola attorno a sé ed è una persona come tante altre. Proprio per questo ci ha voluto parlare della sua quotidianità di persona HIV+. Una quotidianità che, se non fosse per la sierofobia altrui, sarebbe simile a molte altre.

«Si parla spesso di prevenzione, ma quasi mai delle persone HIV+»

«Nel 2021 le campagne informative su trasmissione e prevenzione dell’HIV le conosciamo tutti. – esordisce Alessandro – Le campagne su come abbattere lo stigma, invece, sono sempre poco incisive». Parlare di sieropositività in pubblico, infatti, se non in determinate situazioni, sembra quasi un tabù, una cosa sconveniente da dire, qualcosa da sussurrare all’orecchio.

È come se, una volta diventati sieropositivi si diventi anche invisibili. «L’unico modo per abbattere lo stigma, a mio avviso, è parlare della nostra quotidianità. – sostiene Uva – Ogni volta che lo faccio, qualcuno tra i miei follower si interessa all’argomento e chiede informazioni sulla terapia che seguo e su come la mia vita sia cambiata. L’unica cosa che è cambiata, rifiuti a parte, è il dover prendere una pillola al giorno».

HIV e app di incontri

I rifiuti sulle app di incontri a causa della propria sieropositività, sono per Alessandro un’abitudine, ormai. Sono diversi, infatti, i ragazzi che preferiscono non incontrarlo perché è HIV+. «All’inizio non lo dicevo mai. Lo facevo solo se si arrivava all’incontro – ci racconta – La reazione più divertente è stata quando un collega mi ha detto: “Lo avevo capito, ti si vedeva dalle pupille dilatate”, prima di scappare via con una scusa. Superfluo dire che da quel momento in poi mi ha bloccato su tutti i social e non mi ha più rivolto la parola in ufficio».

Solitamente, però, le reazioni non sono così “divertenti”. I ragazzi lo bloccano in chat e  dal vivo trovano una scusa per andar via, sostenendo di non essere pronti a una relazione di qualunque tipo con una persona HIV+. «Da quando ho scritto chiaramente sui profili delle app di incontri della mia sieropositività, invece, la situazione è un po’ migliorata – ci dice – Le persone che prima scappavano, evitano direttamente di contattarmi, facendo sì che i miei incontri siano solo con chi non ha alcun timore».

HIV e relazioni

Qualche giorno fa, Alessandro ha svolto un sondaggio su Instagram per capire quali fossero le perplessità dei suoi follower sulle relazioni con persone HIV+. Il principale problema sembrerebbe la paura irrazionale di infettarsi, seguita da quella di essere additatз come sieropositivз.

Un altro problema frenante è come affrontare la relazione in sé. Come se avere l’HIV fosse pari ad avere delle patologie debilitanti, per le quali bisogna donarsi anima e corpo al proprio partner. «Non è così, è la persona sieropositiva che si occupa e preoccupa di seguire la propria terapia – spiega Uva –  Non è necessaria assistenza alcuna. L’unica cosa di cui si dovrebbe preoccupare un* eventuale partner è portare il preservativo».

Una delle espressioni in cui Alessandro si è imbattuto più spesso dopo il coming out con eventuali partner è «Non ho niente contro le persone sieropositive, ma…». «I ma che seguivano questa frase sono stati tra i più variegati, da chi non sentiva di voler proseguire un percorso relazionale a chi non riusciva neanche a prendere un caffè con me – racconta –  Trovo che quest’espressione sia molto simile all'”ho tanti amici gay” che utilizzano gli omofobi per giustificarsi. Se non hai nulla contro le persone sieropositive, allora non dovresti avere paura di conoscerle».

Un’altra espressione infelice da utilizzare nei confronti di una persona sieropositiva, poi, è «poverinǝ». «Citando la grande Enorma Jean, “io non sono un poverino” – spiega Alessandro –  La compassione non è un sentimento da rivolgere a chi si dichiara con voi. Avere l’HIV non è una disgrazia, ma una condizione di salute del tutto simile ad altre. Nessuno va a dire poverino a un diabetico».

L’importanza del coming out delle persone HIV+

«Credo che il coming out sia fondamentale per cambiare la situazione – sostiene Alessandro –  Più persone lo faranno prima si capirà che si può vivere in naturalità l’HIV. È importantissimo che lo facciano anche le persone etero. Solo in questo modo si potranno combattere i pregiudizi».

A dire del nostro intervistato, dal punto di vista personale, fare coming out come sieropositivo è del tutto simile a un qualsiasi coming out della comunità LGBT+. «A proposito di questa sigla, sarebbe bello che comparisse l’H, per indicare le persone sieropositive – ci dice – Il + potrebbe essere scambiato per un “e tutte le altre persone”. È giusto avere la stessa considerazione che hanno anche le altre categorie».

Trattandosi di un coming out come gli altri, ciascuno può farlo con i suoi modi e i suoi tempi. «Chi può farlo, lo deve fare – sostiene Alessandro – Gli altri non devono fermarsi a un like o a un messaggio di conforto, ma è utile che amplifichino il messaggio. Se, per esempio, a condividere il mio coming out, fosse un un uomo cis etero, le mie parole potrebbero raggiungere persone alle quali difficilmente sarei potuto arrivare da solo».

HIV e l’importanza di fare rete

Quando una persona scopre di essere sieropositiva, le viene subito proposta una terapia con del personale specializzato. Lo stesso è accaduto ad Alessandro, al quale il virologo ha proposto anche un’altra possibilità. «Il medico che mi ha dato la diagnosi mi ha fatto conoscere Arcobaleno AIDS, un’associazione torinese da lui fondata che si occupa di dare visibilità alla causa tramite informazione e prevenzione – ci racconta – Ho partecipato a degli incontri di gruppo in cui potevo esprimere i miei dubbi e le mie perplessità… Ho potuto confrontarmi, anche, con situazioni a me distanti. Dal  vivere la sieropositività da donna sposata e con figli all’essere HIV+ dagli anni ’80, quando per recuperare la terapia bisognava andare in Svizzera».

«Dimentichiamoci di scrivere “sano” nelle app»

«Alla luce di tutto quello che ho detto finora, trovo che il primo passo da fare per rispettare le persone HIV+ e combattere lo stigma sia modificare il nostro linguaggio – sottolinea Uva –  Scrivere “sono sano” nelle app di incontri significa discriminare i sieropositivi sottolineando che non lo siano. Significa vantarsi di un privilegio a discapito degli altri, che vengono inevitabilmente ghettizzati. È, a tutti gli effetti, come scrivere “BIANCO”, presentando questa caratteristica come superiore».

«Ho scelto di espormi perché molti non riescono a farlo – conclude –  Io ho le spalle larghe che possono sostenere il peso degli insulti e una rete dietro pronta a sostenermi. Voglio dar voce, la mia voce, a tutte quelle persone che non riescono a farlo. Ho deciso di raccontare la mia esperienza per tutti quelli che non possono».