Green Pass, Tamponi e Deadname: una riflessione sulla vivibilità delle persone transgender e non binary

Sempre più burocrazia e vita sempre più difficile per le persone transgender e non binary

Sembra incredibile pensare che, nei secoli scorsi, un sacco di persone si integrassero in società vivendo pubblicamente un’identità di genere diversa da quella attesa dalla loro biologia. Ciò era dovuto a tanti fattori: il binarismo del vestiario, ma soprattutto la quasi assenza di burocrazia.

Oggi, le cose sono cambiate. Ogni anno si aggiungono vincoli che rendono le nostre vite piene di burocrazia: app per pagare che fanno apparire il nome anagrafico, che il gestore dell’esercizio commerciale ripete perché al corso di PNL (programmazione neurolinguistica) gli hanno detto di farlo. Ogni anno nascono nuovi processi, per cui prima non era necessaria l’identificazione, che improvvisamente la richiedono.

Un tempo non lontano frequentavamo tanti posti senza dover dichiarare la nostra identità. Un bar, un ristorante prenotato per quattro a nome di un generico “Roberto”, di cui nessuno verificava la corrispondenza, se poi i quattro si presentavano al ristorante, o quando si prenotava una sala prove per suonare, oppure ancora quando si andava ad i concerti e i biglietti non erano ancora nominali. Anche negli alberghi, spesso si sono accontentati dei documenti di chi aveva prenotato, non verificando gli altri.

Sarebbe necessaria una riflessione su questa iper-burocratizzazione che riguarda tutti i contesti e che ci fa sembrare un po’ all’interno di realtà distopiche come quella di Minority Report, in cui le persone vengono riconosciute dal bulbo oculare, e chiamate col nome anagrafico da mille ologrammi di spot pubblicitari.

Nome anagrafico letto ad alta voce ed altre cattive prassi

Poi, ci sono contesti dove i dati anagrafici sono rilevanti, come prendere un aereo, fare un concorso pubblico, firmare per un rogito, ma sono situazioni talmente episodiche che noi persone transgender ed enby ci abbiamo fatto il callo. Poi c’è la Sanità: ci sono mille protocolli che impongono di  non pronunciare nomi anagrafici ad alta voce, ma viene fatto. Uno sguardo all’impegnativa e poi, sovrappensiero, la pronuncia del nome, come se si attendesse un mio cenno affermativo. Non dovrebbero, ma lo fanno, lo considerano indolore e naturale, perché non è contemplata la possibilità che quella persona (transgender senza passing, o non binary, quindi non riconosciuta come transgender o enby) non gradisca quel nome o che sia in presenza di accompagnatorə che non lo conoscano. Allo stesso modo, nonostante ormai la realtà transgender sia nota, avvengono situazioni imbarazzanti, alle poste, o in contesti sanitari, in cui l’addetto si imbufalisce perché non considera realistico che ad un certo nome corrisponda una certa persona transgender, col passing ma non ancora rettificata. A proposito di questo, l’attivista Alec Sebastian D’Aulerio ci dichiara:

Il Green Pass è il certificato che dal 6 agosto 2021 permetterà a chi ne è in possesso di poter accedere ad una serie di servizi e attività, quali bar e ristoranti al chiuso, spettacoli all’aperto, centri termali, piscine , palestre, fiere, congressi e mostre, cinema e teatri. Una manovra che dovrebbe tutelare molti, ma che lascia la comunità transgender inevitabilmente indietro. Questo perché, se in primo momento sembrava chiaro che con il green pass si dovesse esibire solo il QR code, ad oggi pare che non sia l’unico documento che andrà mostrato all’organizzatore o all’esercente all’ingresso. Infatti, per verificarne la validità occorrerà esibire un proprio documento di identità in corso di validità, allo scopo di accertarsi della corrispondenza dei dati forniti. Potreste non capire le persone transgender, ma anche noi meritiamo privacy, equità e libertà, ed il green pass pone tuttə coloro che non hanno ancora effettuato la rettifica anagrafica dei documenti, vuoi per un atto politico, o perché sono in percorsi non med, o per la lentezza generale del tribunale, inevitabilmente davanti ad un coming out forzato. Un coming out che non solo potrebbe generare disforia ed imbarazzo, a causa delle innumerevoli spiegazioni da fornire, ma anche dei veri e propri attacchi transfobici. Come reagirà il ristoratore alla quale dovrò fornire un documento in cui vi è un nome ed un genere che non mi rappresentano? Basterà chiudere un occhio sulla mia tutela alla privacy, raccontandogli vita, morte e miracoli, o sarà necessario fornire anche dei documenti che accertino la mia transizione ormonale? E cosa fare nel caso in cui reagisse male? Se mi urla contro? Se non mi fa entrare o arriva addirittura alle mani? Sono domande legittime quando la legge è lo stato non ti tutelano, e ti mettono in situazioni scomode come queste. Perché a noi non ci pensa nessuno, siamo dei cittadini di serie B, la quale esistenza viene negata, riducendo la nostra identità ad un errore. Per i più siamo vittime di noi stessi, persone aventi disturbi psichici che non vedono l’ora di rubare spazi e diritti, nonostante anche l’OMS abbia reso nota la nostra salute mentale. La verità è dura da mandare giù, ma non vorremmo altro che una banalissima vita da cittadini qualunque. Vorremmo continuare a decidere a chi dire della nostra transgenerità, senza obblighi istituzionali per accedere ad una “vita di tutti i giorni”. C’è bisogno che il Governo ci veda e ci ascolti, e ci consenta una privacy che già raramente ci dedichiamo, e che ci pone da sempre al di fuori del reale tessuto sociale, perché più visibili di altri invisibili.

Green pass: sì, ma con i dovuti protocolli di Privacy

Alla luce di tutte queste premesse, questo articolo non vuole assolutamente mettere in discussione l’importanza del Green Pass (o dell’esibizione del risultato del tampone), ma chiedersi se l’esigenza di privacy che in generale hanno tutte le persone, ma in particolare hanno quelle non binary e transgender con i documenti non rettificati, verrà attenzionata, oppure finiremo per vedere pronunciato il nostro nome anagrafico davanti ad amici ed amiche con cui volevamo solo goderci una serata di svago e a cui, in dieci anni di amicizia, non abbiamo mai dovuto far sapere il nostro nome anagrafico.

Molte realtà dell’attivismo LGBT penseranno che per ora la priorità sia il Ddl Zan, ma in realtà chiedere garanzie sulla privacy durante la consultazione dei Green Pass è, in termini di tempi, qualcosa di più urgente che richiederebbe solo buon senso. Le persone che consulteranno il Green Pass (gestori di locali, camerieri, buttafuori) provengono da realtà professionali nelle quali non sono state abituate a maneggiare dati sensibili.

Occorrerebbero precisi protocolli per far sì che ciò avvenga nel modo più indolore possibile. Ad esempio, potrebbe essere richiesto uno spazio di un metro o più tra l’una e l’altra persona esaminata. Potrebbe essere chiesto all’esaminatore il silenzio durante la consultazione dei dati, e di tenere presente che possano esserci persone transgender o non binary con un aspetto discordante dal nome anagrafico, e che in quel caso gli ulteriori controlli vanno fatti altrove, in uno spazio “safe” e senza osservatori. Queste richieste andrebbero fatte al più presto, ed è necessario che tali accorgimenti non siano pensati solo per persone che lo stato considera transgender (magari tramite una perizia, una sentenza, un certificato di un professionista), ma per tutte quelle persone “gender variant” la cui variabilità di genere non è registrata in nessun almanacco.

Non sarebbe una soluzione inserire un nome “Alias” a chi è all’interno della legge 164/82 lasciando “a piedi” tutte le altre persone sotto l’ombrello transgender. Molto meglio una soluzione che vada bene per tuttə. Del resto, una migliore privacy per tutti non sarebbe sconveniente neanche per coloro che non vivono il tema del deadname.

Transfobia dei gestori e privacy per chi frequenta spazi di dating

Un altro problema potrebbe riguardare esercenti e realtà transfobiche, che finora hanno trattato bene dei clienti di cui non conoscevano il nome anagrafico e quindi di cui non immaginavano la condizione transgender. In questo caso, il problema rimarrebbe a prescindere dalla privacy garantita nel momento della consultazione del green pass o del tampone.

E poi c’è anche un problema legato a posti come locali LGBT, BDSM o di incontri, finora frequentati da persone che prenotavano con “nomi d’arte” per mantenere la loro privacy, e che adesso avranno i dati anagrafici di tutte le persone che entrano, a meno che non ci sia un preciso protocollo per il quale i dati non vengono registrati ma consultati e basta, col totale divieto di prenderne nota.

Come stanno gestendo la cosa all’estero?

Prima che partano discorsi benaltristi sul fatto che «la privacy è l’ultimo dei problemi», oppure che «comunque il problema è irrisolvibile», vediamo cosa è stato fatto all’estero. L’app danese (Coronapas) non mostra dati personali e non necessita del confronto con i documenti, per esempio. In fondo alla pagina ci sono le FAQ e c’è proprio specificato esplicitamente quanto segue:

Does ID have to be presented along with a valid corona passport?
It depends on how you show your valid corona passport.
If you use the corona passport app or the app MinSundhed, there is no requirement to present ID. This is because there are moving elements in the two apps that minimize the risk of fraud.
On the other hand, you must present ID if you use sundhed.dk, a printed corona passport, or documentation issued by private providers of rapid antigen tests (RAT). The purpose of this is to minimize the risk of passport fraud.

Quindi se si usa proprio l’app Coronapas (e non altre app o il QR code stampato) non serve esibire i documenti.

Conclusioni

Tante sono le questioni che la consultazione di green pass e tamponi sollevano, e qualcuno vorrebbe estendere il discorso ad altri temi simili (votazioni, carriere alias in università) ma credo sia un errore estendere il tema ad altre questioni che non riguardano l’attività immediata e riguardano prassi diverse.

A mio parere, le associazioni LGBT, in particolare quelle transgender, dovrebbero manifestare alle Istituzioni l’urgente bisogno di risolvere il problema privacy, dichiarando che il focus è il benessere delle persone transgender e non binary, e la richiesta non riguarda un’ostilità al green pass, per non essere fagocitate da un sentimento “no vax” di cui in movimento LGBT, in questo momento, non può e non deve farsi carico.

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