Persone transgender non med: una vita funambolica per mancanza di un riconoscimento

È un percorso anche quando non ci sono ormoni e chirurgia

Non tutte le persone transgender intraprendono un percorso di cambiamento medicalizzato. Alcune di loro lo desiderano, ma non possono iniziarlo per ragioni sociali (il rischio della perdita della casa o del lavoro) o di salute, ma alcune persone transgender, semplicemente, non pensano che i cambiamenti fisici ottenibili tramite ormoni e chirurgia renderebbero migliori le loro vite.

Non è detto che ciò dipenda da motivi legati ad i limiti delle attuali tecnologie: semplicemente, queste persone hanno trovato un equilibrio in altro modo. Questo equilibrio potrebbe durare per anni, ma anche per sempre. Quello che conta è la qualità di vita della persona che sta compiendo un percorso di transizione non medicalizzata.

È una forzatura far coincidere il concetto di “percorso” con il cambiamento del corpo tramite ormoni e chirurgia. Così come una persona “LGB” fa un percorso di autocoscienza per arrivare, tramite una serie di coming out, in famiglia, sul lavoro, nella rete di affetti, alla piena affermazione di sé, ciò avviene anche per una persona transgender, indipendentemente dalla modifica del corpo, ed è per questo che molte persone, anche in percorsi canonici, fanno risalire la loro nascita alla propria presa di consapevolezza, o alla prima volta che lo hanno detto a qualcuno, e non all’inizio del cambiamento fisico che, quando c’è, arriva tempo dopo.

La condizione Non Med: leggi attuali in Europa e in Italia

In Italia, le persone che hanno trovato un equilibrio come persone transgender senza ricorrere ad ormoni e chirurgia si riconoscono nel termine “non med”. Diversamente da non poche altre realtà all’estero (Belgio, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Portogallo), questa condizione, in Italia, non ha alcuna tutela.

«La Legge 14 aprile 1982, n. 164 – come chiarisce l’attivista di Acet Laura Caruso – non prevede esplicitamente la necessità di sottoporsi a interventi chirurgici di riassegnazione, ma nel corso degli anni la giurisprudenza ha consolidato una prassi che li ha, di fatto, imposti. Si è dovuto attendere la sentenza 221/2015 della Corte Costituzionale, pubblicata il 5 novembre 2015, che ha stabilito che l’assenza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali».

In ogni caso, allo stato attuale, la condizione non med sembra esclusa dall’applicazione della Legge 164/82, che nell’interpretazione prevalente si riferisce ai percorsi medicalizzati.

Vita “non med”, difficoltà di accesso al lavoro e alla sanità

Proviamo a parlare della realtà non med e dei problemi quotidiani a cui le persone non med vanno incontro. Alla persona transgender “non med” non viene riconosciuta la condizione di transgender. Per lo stato, sono “ordinari” uomini (se nate maschi) e donne (se nati femmina).

Alla luce di questa mancanza di riconoscimento, le persone non med vivono con angoscia l’accesso al lavoro, l’invio del curriculum, il presentarsi ad un colloquio, perché non possono appoggiarsi a dei precedenti, o avere un riconoscimento esterno, e il loro coming out cade totalmente sulle loro spalle, sottoponendoli/e allo sguardo incredulo di esaminatori e recruiter, che praticheranno impunemente deadnaming (uso del nome anagrafico e non di quello scelto) e misgendering (la declinazione grammaticale coordinata col corpo e non con l’identità di genere dichiarata) e renderanno sgradevole ed inefficace la candidatura.

Simili problemi si verificano quando la persona non med accede ad una visita medica. Difficile richiedere un trattamento che mette a proprio agio il o la paziente transgender quando il personale sanitario, a stento, collega il concetto di “transgender” a dato “sanitariamente rilevante”, come un percorso ormonale o degli interventi subiti, ma considera “superfluo” un coming out non legato a questi cambiamenti, e quindi considera superfluo anche il rivolgersi alla persona col genere richiesto, per metterla a proprio agio in un momento già difficile a causa di un problema di salute. Queste problematiche portano la persona a sottrarsi dalla cura di sé, o a ricorrere a privati, che spesso hanno costi proibitivi e non garantiscono una particolare sensibilità verso le nostre soggettività.

E, se alcuni attivisti, in Italia, vogliono rendere sempre più nota l’opzione “non med”, affinché i giovanissimi possano scegliere, che “scelta” può essere quella che lo stato non riconosce?

La strisciante transfobia che non osa dire il suo nome

Nonostante non siano riconosciute come persone transgender dalla legge italiana, non significa che le persone “non med” non siano vittime di transfobia, perché un bullo non “chiede un certificato”, ma attacca tutto ciò che per lui è disturbante, e non prendere ormoni non fa sì che la persona abbia un aspetto conforme alle aspettative di genere, anzi, le persone non med non possono usufruire del cosiddetto “passing” (essere percepite come persone del genere d’elezione e non del sesso di nascita) che si ottiene tramite ormoni e chirurgia. La transfobia a cui le persone non med sono esposte è più strisciante, ed è “quella discriminazione che non ha il coraggio di nominare il suo nome”.

E così, la persona non med è vittima di fatti apparentemente “casuali”, come un improvviso sfratto da un appartamento sempre regolarmente pagato, l’esclusione da un ristorante o locale che si era regolarmente prenotato, un barbiere che “chiede” ad un uomo transgender non med di non servirsi più della sua bottega perché “i clienti si sono lamentati”, e così via.

I pignoli potrebbero dire che in tutti questi casi non si è sicuri che sia transfobia, ma poi nei gruppi di autocoscienza viene fuori che le storie sono sempre le stesse, indipendentemente da come le vittime vestono, dalla loro costituzione fisica e dal loro status sociale: se non è un barbiere è un’estetista, se non è un locatore è un datore di lavoro, se non è un ristorante è un pub.

Ma, per chi è lontano dalle reti di autocoscienza, una transfobia “nebulosa” che non nomina il suo nome è ancora più pericolosa di quella “alla luce del sole”, e la persona potrebbe iniziare a pensare di essere lei il problema, ed essere logorata da continue esclusioni, continue discriminazioni, violenza verbale e frecciatine che, sebbene apparentemente meno gravi di uno stupro o di un pestaggio, se imposte alla persona giorno dopo giorno, la portano a tentare il suicidio o a tornare indietro nel percorso.

Il cambio dei documenti come primo passo per l’inclusione e l’ingresso nell’immaginario collettivo

La possibilità di cambiare i documenti, di liberarsi da un nome anagrafico che dà ansia, umiliazione e disagio, perché non corrisponde alla propria identità, aiuterebbe le persone non med ad inserirsi serenamente nel mercato del lavoro, fare serenamente un percorso di formazione, accedere alla propria salute agevolmente.

Qualcuno potrebbe pensare che un cambio documento, senza il già citato “passing” sia inutile, ma la legge Cirinnà ha dimostrato che la popolazione, per dare credibilità ad una condizione, ha bisogno di vederla riconosciuta dalle istituzioni. Molti qualunquisti, a distanza di pochi anni, hanno iniziato a parlare in modo diverso delle coppie gay, anche non unite civilmente, da quando sanno che c’è un riconoscimento.

Alla luce di questo, anche la possibilità di rettifica dei documenti, senza obbligo di medicalizzazione, darebbe dignità ai percorsi “non med”, naturalizzando questa condizione, rendendola “ordinaria”.