Sanremo e canzoni LGBT+: l’infelice binomio tra censure, cliché e queerbaiting

Alla vigilia di quello che sembra essere uno dei festival più queer di sempre, grazie soprattutto alla presenza di artisti come La Rappresentante di Lista e Madame che si sono esposti su temi come la fluidità sessuale e di genere, ripercorriamo la relazione complicata tra Sanremo e le canzoni a tematiche LGBT+. Tra testi stereotipati, sassi (rainbow) lanciati per poi nascondere la mano, censure di Mamma Rai ed omosessuali diventati per “magia” etero, l’Ariston si è spesso reso teatro del peggior bigottismo italico, incapace di osare. Basti pensare che ad Achille Lauro è bastato un po’ di trucco e qualche parrucca per destare scandalo negli anni ’20 del ventunesimo secolo.

Possiamo ritenere “Non mi dire chi sei” di Umberto Bindi la prima canzone a tematica LGBT+ del Festival. Era il 1961 e, senza riferimenti espliciti ma anche senza riferimenti al genere della persona amata, il cantautore ligure canta di un amore impossibile che diventa realtà. La raffinata canzone passerà tuttavia in secondo piano, a causa del look di Bindi: una pelliccia e dei gioielli gli costano l’allontanamento dal Festival. A sottolineare il trattamento riservato all’artista sarà Gino Paoli, nel 2014, sempre sul palco dell’Ariston, descrivendolo come «un uomo gentile, buono e un grande artista […] massacrato, deriso umiliato e poi dimenticato».

Passano ben 16 anni prima di incontrare un altro piccolo riferimento alla tematica omosessuale. Si tratta di “Carmela”, canzone interpretata da una giovane Rettore, che è anche autrice del pezzo insieme a suo marito Claudio Rego. Il testo parla di soldati che «si incontravano di notte per non farsi vedere, cantavano e facevano l’amore». La canzone, ricca di riferimenti politici e storici, perderà lo scontro diretto contro la dimenticabilissima “Gran Premio” degli Albatros di Toto Cutugno.

Nel 1993 Grazia Di Michele e Rossana Casale si presentano al Festival con una canzone dal titolo “Gli amori diversi”. Titolo piuttosto versatile che, insieme (stando ai ricordi di Giovanni Dall’Orto) ad alcuni servizi fotografici in pose allusive, diventa uno dei primi esempi di queerbaiting della musica italiana. Le due cantanti ritratteranno, se così si può dire, affermando di essere state fraintese e precisando che non si trattava di un testo autobiografico. Ma l’ex professoressa di Amici si rifarà con un altro duetto, nel 2015, insieme a Mauro Coruzzi (meglio noto come Platinette). “Io Sono Una Finestra” parla infatti di identità di genere, di chi deve lottare per riconoscersi nel proprio corpo ma soprattutto contro i pregiudizi della gente.

Il più coraggioso è stato sicuramente Federico Salvatore che, nel 1996, porta al Festival della canzone italiana il coming out di un figlio omosessuale con la madre. Drammatico e stereotipato per gli standard odierni, “Sulla porta” è tuttavia un pezzo più che apprezzabile che nel contesto culturale negli anni ’90. Pippo Baudo introduce il cantautore partenopeo facendo dei giri di parole senza pronunciare la parola “omosessuale”. Parola che, stando al racconto dello stesso Salvatore, era stata bandita dalla Rai. Nelle prime serate, canterà infatti «sono diverso, mamma, e questo ti fa male», ma nella finale decide di rimanere fedele al testo originale, intonando «sono diverso, mamma, un omosessuale». A niente è servirà il caldo applauso dell’Ariston: Salvatore pagherà l’azzardo piazzandosi tredicesimo, ben lontano dal terzo posto guadagnato dopo la prima esibizione.

Nel 2008 le canzoni a tematica LGBT+ sono ben due. Tra i giovani c’è Valeria Vaglio che canta “Ore ed ore”, la storia di un amore tra due donne. Al secondo posto tra i big, troviamo “Il mio amico” di Anna Tatangelo, una canzone ispirata da un’amica della cantante di Sora, che all’epoca dei fatti non aveva ancora fatto coming out come donna trans e che quindi viene descritta come un amico gay. L’amore omosessuale viene scritto ancora una volta come qualcosa di drammatico e doloroso, circondato da una serie di cliché che forse meritavano di lasciare spazio a qualcosa di più profondo e innovativo. Oltre alle buone intenzioni degli autori e dell’interprete, va però riconociuta anche l’iconicità dei versi «L’amore non ha sesso, il brivido è lo stesso o forse un po’ di più», ancora oggi un guilty pleasure di molti millennials.

Un anno più tardi l’amico di Lady Tata verrà rimpianto a causa di un’impresentabile canzone di Povia, anch’essa dedicata all’amico dell’artista in gara. “Luca era gay” racconta questa volta la storia di una persona che cambia orientamento sessuale, un uomo che da omosessuale diventa eterosessuale e finalmente vive una vita serena. Il protagonista della storia afferma di non essere andato da preti o psicologi, ma di aver scavato nel proprio passato dove – senza farla lunga – si rende conto che era diventato gay per alcune mancanze dei genitori. Qui ci sarebbe una lunga letteratura scientifica a smentirlo, ma non importerà alla giuria e al pubblico di Sanremo, che regalerà al cantautore la medaglia d’argento di Sanremo 2009.

Semplice, diretto e positivo è il messaggio de “Il postino (Amami uomo)”, brano con cui Renzo Rubino gareggia nel 2013 tra le nuove proposte. Per una volta l’omosessualità non è un dramma al quale sopravvivere, ma l’amore tra due uomini viene descritto come qualcosa di cui essere felici e fieri. L’ultimo riferimento LGBT+, anche questo molto positivo, viene portato a Sanremo da Levante, che parla di bullismo omotransfobico all’interno della sua “Tikibombom”. La cantautrice di origini siciliane si ferma al dodicesimo posto, ma può vantarsi di aver portato al Festival una delle poche canzoni LGBT+ degne di questo nome.