“Fuori i nomi!”: Simone Alliva incontra le madri e i padri del movimento LGBT+ italiano

Simone Alliva, giornalista e scrittore da sempre attento alle tematiche LGBT+, non poteva scegliere epigrafe migliore per la sua ultima fatica “Fuori i nomi!” (Fandango Libri) di una frase dell’attivista lesbica statunitense Audre Lorde: «Non era previsto che noi sopravvivessimo».

A partire dalla fondazione del FUORI! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), da cui il gioco di parole del titolo, Alliva ripercorre i 50 anni del movimento LGBT+ attraverso le voci di coloro che non solo sono sopravvissuti agli anni in cui essere omosessuale, bisessuale o trans comportava l’emarginazione sociale, ma hanno anche dato il proprio sostanziale contributo all’avanzamento dei diritti.

Tra di loro c’è “il padre”, Angelo Pezzana, tra coloro che hanno fondato il FUORI! e hanno dato vita ad una Stonewall gentile (in pieno stile torinese). C’è poi “la ragazza del sud”, Titti De Simone, prima presidente di Arcilesbica, «l’associazione che per prima ha aperto al tesseramento delle persone transgender», che oggi definisce il «nulla». Non passa inosservata “la strega cattiva”, Porpora Marcasciano, la sociologa rockstar fondatrice del MIT (Movimento Identità Trans) di Bologna. Ci sono poi nomi più mainstream, da Franco Grillini a Vladimir Luxuria, passando per Imma Battaglia.

L’intervista

 A distanza di un anno dall’uscita di “Caccia All’Omo”, il libro-inchiesta sull’omotransfobia in Italia, hai pubblicato la tua ultima fatica, che parla soprattutto di resistenza e di battaglie, dando voce a chi le ha combattute in prima linea. Come è nato questo libro e come sono nati gli incontri con i suoi protagonisti?
Questo libro esce a meno di un anno da “Caccia All’Omo” che arrivò in libreria il 17 giugno 2020. Nasce naturalmente dal bisogno di celebrare 50 anni di una storia che non viene mai raccontata dai media generalisti. La storia d’Italia è passata di qui: dai portici di Bologna nel 77 alla presa del Cassero, dalla piaga dell’Aids ignorata dal governo italiano. E ancora la morte del poeta Alfredo Ormano datosi fuoco in Piazza San Pietro fino al World Pride per citarne qualcuno. Gli incontri sono nati quasi per caso. Durante la mia vita professionale avevo già incrociato queste persone molto interessanti, di loro sapevo ben poco ma sono sempre stato convinto che nascondevano storie e segreti che avrei voluto raccontare un giorno. Cinquant’anni dalla nascita del movimento Lgbt mi sembrava il tempo esatto.

Immagino avrai intervistato i protagonisti in contesti diversi: una telefonata, uno scambio di mail, un incontro al bar. Hai qualche aneddoto da raccontarci su un incontro fuori dall’ordinario?
Ce ne sono tanti. Quasi tutti. Forse con Vladimir Luxuria durante il percorso dal Pigneto al Stazione Termini. Un percorso non lunghissimo, eppure, come si può leggere dal libro, è stato come salire sulle montagne russe: risate, analisi molto serie sulla situazione politica attuale e un momento molto forte di commozione.

C’è qualcuno di loro con cui continui a sentirti abitualmente?
Con quasi tutte e tutti. Le reazioni sono state diverse. Ma con tutti continuo a mantenere un contatto. Sento spesso anche Angelo Pezzana che non conoscevo prima di questa intervista. Un intellettuale interessante. Con molti di loro presenterò “Fuori I Nomi” in giro per l’Italia.

Non ti chiederò quale intervista ti ha coinvolto di più, ma hai raccontato che, oltre alle tante persone che hanno accettato di essere intervistate, ce ne sono altre che hanno rifiutato. Oltre a quello di Cristina Gramolini, qual è il rifiuto che più ti ha sorpreso e quello che più ti ha addolorato?
Arcilesbica è presente nel libro in ogni intervista. Anche il suo rifiuto è presente. Le ho dedicato un capitolo. Addolorato no, dispiaciuto forse. Sicuramente avrei voluto intervistare Vanni Piccolo, Andrea Pini, Pina Bonanno. Ho inseguito Aurelio Mancuso ma non ce l’abbiamo fatta. Questo, ci tengo a dirlo, non è un libro che colleziona figure ma incontri e non offre medaglie al valore nel segno della storia. Cerca solo di raccontarle le storie, private che però sono patrimonio di tutti. Questo è un libro sugli incontri mancati. Los desencuetros, direbbe Cortázar. Ci sono parole intraducibili: nos desecontramos, abbiamo proprio quel giorno, in quel posto, in quel momento mancato il nostro incontro.

Tra le più dure sfide che ha dovuto combattere la comunità LGBT+ c’è quella contro l’AIDS, i cui strascichi sono ancora oggi presenti nello stigma sociale. Tra le persone che hai intervistato c’è il regista Giovanni Minerba che a causa dell’AIDS nel 1992 ha perso tragicamente il proprio compagno, Ottavio Mai. Cosa possiamo, o forse dobbiamo, ereditare da storie forti come quelle presenti in “Fuori i nomi!”?
Che c’è sempre una luce a segnalare quanto sia fitta l’ombra. Che fare comunità salva la vita. Sempre. Quando parlano di ghetti, “fuori dai giri” ecco è un gioco sbagliato, non può essere il gioco delle persone Lgbt. Queste storie raccontano di persone che hanno imparato a difendere se stesse e gli amici e gli amanti e le persone con l’HIV e gli adolescenti contro un mondo che le indicava come deviati, non previsti, sbagliati. C’è un mondo che ha sempre cercato di spingere le persone Lgbt nelle carceri, nei manicomi o sottoterra. E queste storie raccontano come si è usciti fuori. Si è accesa una luce nuova che ha permesso a una comunità di pensare al dopo risentimento ma con la forza vergine di provare a farcela comunque: perché deve, altra strada non c’è. Eppure avrebbe potuto benissimo arrabbiarsi, chiedere il conto per lo stato di abbandono di quegli anni. Invece ha scelto di illuminare un tempo nuovo. Si eredita così la forza di rialzarsi e ricominciare con dignità e coraggio.

L’ultima volta che ci siamo sentiti il ddl Zan era al palo. Da allora qualcosa si è mosso, sia in positivo con le manifestazioni che si sono tenute in tutta Italia, che in negativo con alcuni “sgambetti” da parte di attivisti o presunti tali. Quanto sono influenti le uscite di queste persone nel dibattito pubblico?
Non so che genere di attivisti siano. La storia ha già ridimensionato questi soggetti. Basta leggere quello che racconta Titti De Simone su Arcilesbica e la sua fondazione. Altri sono personaggi che fanno dichiarazioni di posizionamento, cioè dicono: sono qui, ascoltatemi, voglio essere arruolato o arruolata. Una moderna forma di “cerco-lavoro”. Cercano qualcuno che assicuri loro quel che non può dargli la credibilità e il talento che non hanno. Stanno facendo dei danni? Certamente. Stanno uccidendo una legge di civiltà. Ma la storia farà ragione dei meriti e dei demeriti, come sempre. Loro andranno giù come dei perdenti. E saranno dimenticati. Arriverà il tempo in cui ciascuno sarà misurato sulla sua capacità, la lealtà, la cura per l’interesse collettivo e non per il proprio, il coraggio. Qualità che queste persone non hanno.

Il principale seme della discordia è l’identità di genere, nonostante le persone trans, queer e non-binary siano le più colpite dalla violenza e dalla discriminazione. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a violente aggressioni a Catania, Sassari e Napoli, per non parlare degli omicidi di persone trans, di cui siamo maglia nera in Europa. Perché l’Italia ha questo problema con la transfobia e quanta responsabilità hanno i media?
Per molto tempo, in Italia soprattutto, la rappresentazione mediatica più comune di una persona transgender è stata quella della prostituta trans; una rappresentazione che ha creato un vincolo tra le identità transgender, la criminalità e la pericolosità sociale (come del resto è accaduto in passato anche alle omosessualità). Se disumanizzi qualcuno lo odi senza vergognarti. È successo in passato con altre “minoranze”. Succede sempre.

Oltre alla legge contro l’omotransfobia, quali altre battaglie odierne deve ancora combattere il movimento LGBT+?
Tutte. Dalla riforma della 164 del 1982 sul cambio di genere a una riforma delle adozioni. Il matrimonio egualitario. Una legge contro le terapie riparative. E penso che dovrà ripartire da una legge contro l’omotransfobia perché di questo passo questa legge rischia di non essere approvata.

In diverse occasioni hai precisato di essere un giornalista e non un attivista. Alcuni degli intervistati di “Fuori i nomi!” sono però entrambe le cose. Cosa vi differenzia?
Sono un militante, sì, ma del dubbio, l’unica religione a cui sono devoto: la domanda sul perché delle cose, sulla ragione delle cose è l’unica tessera che porto sempre con me, l’unica preghiera, non ne ho altre. Non ho posizioni (dichiarate) su moltissime questioni che agitano il mondo Lgbt. Sono solo un giornalista. E basta. E il compito del giornalista è quello di informare. Questo è un paese omofobo e io devo scriverne. Non importa sapere che penso ma quello che vedo. Perciò preferisco la dimensione delle inchieste ai commenti, agli editoriali. E poi parlo a un pubblico generalista. Questo mi garantisce una libertà assoluta: se c’è qualcosa che non mi convince in un movimento o in un’associazione non ho problemi a scriverlo. Non ho ombrelli politici, non appartengo a nessun gruppo o club o lobby. “Non si può perché danneggi la causa”, me lo hanno detto qualche volta. Non me ne frega niente. A me interessano i fatti.

Da giornalista, quale decennio avresti voluto vivere e raccontare attraverso il tuo lavoro?
Senza dubbio quelli del terrorismo rosso e nero negli anni di piombo. Tra il 1969 al 1982. C’erano le idee e i corpi. La politica e il giornalismo, per come lo intendo io almeno.

Immagina, tra 20 anni, di ritrovarti a scrivere un “sequel” di “Fuori i nomi!”. Quali sono le più significative figure di riferimento del movimento che meriterebbero di raccontare questi anni alle future generazioni?
Osservo un po’ di persone. Non voglio fare troppi nomi per adesso, perché potrebbero deludermi. Certo, se analizziamo gli ultimi 15 anni della storia moderna del movimento Lgbt+ non troviamo altro che mezze-tacche. Qualcuno forse è in divenire. È emersa Marilena Grassadonia, ex presidente di Famiglia Arcobaleno, oggi responsabile Diritti e libertà di Sinistra italiana, già presidente di Famiglie arcobaleno. Per il resto chi c’è che pensa ai prossimi 20 anni? Chi sta costruendo qualcosa? Ci sono discussioni sull’includere o meno altri colori alla rainbow flag. E poi -cosa che condivido- un’attenzione sull’uso corretto del linguaggio. Unica lotta visibile oggi che si fa a colpi di hashtag. Ci sono flash-mob che si fanno sui social colorando i profili rainbow per sostenere il ddl Zan. Mettere le bandiere ai profili? È questo che ci è rimasto per sentirci parte di qualcosa da salvare? Il problema è culturale. Manca storia e conoscenza. L’ho percepito durante qualche intervento in Piazza del Popolo per il ddl Zan. È un peccato. L’equivoco è che l’uguaglianza sia possibile solo al ribasso, quando si arriva al livello dell’insipienza. La comunità dovrebbe essere rappresentata da persone migliori nell’ambito in cui svolgono il proprio compito: la volontà non basta, serve la conoscenza e la capacità di farsi portavoce. Purtroppo, ormai il sapere e la conoscenza vengono scambiati per un privilegio e non per una fatica. Storia e conoscenza. Vuoi fare il leader di una comunità? Devi dimostrare di avere questo binomio. Altrimenti sei un fascista o un démodé. Cioè un tipo che crede nel superomismo di Friedrich Nietzsche, che per diritto divino si sente autorizzato a maneggiare gli altri come pedine d’un gioco di scacchi: secondo le proprie scelte private e le proprie decisioni personali.

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