Era il 1987 quando nasceva la LILA, Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids, un’associazione di cui il nostro Paese aveva estremamente bisogno per combattere questa tremenda malattia a cui lo Stato era disinteressato. Ben poche risorse a disposizione per la LILA, se non l’impegno di persone sieropositive e non, volontari e professionisti per lottare contro lo stigma sociale, avvalendosi degli strumenti della prevenzione e della (in)formazione. Oggi la ricerca ha effettuato passi da gigante, arrivando addirittura a curare pazienti, come avevamo raccontato nella nostra pagina con il Protocollo shock and kill e durante il Coronavirus. Ecco, Nome di battaglia LILA è la narrazione di questa storia.
La strategia per la lotta
Il documentario esordisce proprio con l’iniziale incredulità che colpì la comunità LGBT+. «Pensavamo addirittura a un’operazione della CIA per screditare la comunità omosessuale. Un’altra teoria era che il virus era sfuggito a un laboratorio che lo stava studiando, che lo aveva creato», ricorda Franco Grillini, allora Presidente nazionale Arcigay. Lui fu tra i diversi testimoni del campeggio associativo di Porto Sant’Elpidio del 1983, quello in cui le lavanderie si rifiutarono di prendere le lenzuola degli omosessuali: fu il primo scontro fra la popolazione e gli “untori”. Per rispondere all’autoassolutoria formula “malattia dei gay” che la società stava coniando, occorreva anteporre una campagna informativa ad ampio spettro: scuole e istituti penitenziari, mondo delle professioni, ma anche tra i marciapiedi durante la notte e ovunque albergasse il maggior rischio di contrarre infezioni.
Le responsabilità dello Stato
Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del decennio successivo, funerali e candlelight memorial segnarono la vita di troppi omosessuali. Nonostante il Congresso mondiale sull’AIDS di Firenze nel 1991 e l’accresciuta sensibilità sul tema, lo Stato italiano non dimostrò alcuna attenzione, fino all’azzeramento delle attività di prevenzione nel giugno 1993.
Inibitori e proteasi non vennero inizialmente resi disponibili, nemmeno per uso compassionevole, se non in numero limitatissimo. Ci volle la pacifica invasione dei militanti LILA a Farmindustria e in una prima serata RAI per vincere il conflitto di interesse dei membri delle Commissioni ministeriali con le multinazionali del farmaco. Se da una parte il 1996 fu un anno storico perché la ricerca riuscì a cronicizzare la malattia, d’altro canto in Italia la comunicazione istituzionale era ormai compromessa dai toni allarmistici dei media che davano caccia all’untore suggestionando l’immaginario collettivo.
Le tangenti scoperchiate da Mani Pulite non risparmiarono neppure lo stucchevole spot televisivo contro l’AIDS. Non migliorò l’approccio l’imbarazzante opuscolo di inizio anni 2000 dei Ministri Sirchia e Moratti che individuava l’astensione dal sesso come strumento di prevenzione del contagio. Un pensiero, questo, figlio di una cultura bigotta che nella Chiesa si esprimeva nel “Castigo di dio” pronunciato dal cardinale Siri, ma dalla quale timidamente si affrancava Don Luigi Ciotti, Fondatore e Presidente LILA.
Ricercando una sensibilità della politica
Dal 2008 le persone con HIV seguono terapie antiretrovirali che sono anche riuscite a rendere la carica virale non rilevabile, non trasmettendo più il virus alle altre persone, nemmeno con rapporti sessuali. La PREP rappresenta la prospettiva di prevenzione di maggiore interesse e la ricerca avanza giorno dopo giorno. Da dieci anni, però, nessun finanziamento è destinato alle associazioni che si occupano di HIV sul territorio e lo Stato continua a non esserci. Ora come allora.
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