Se mi segui ti scopo

Nel marzo del 2004, uno studente diciannovenne che frequentava il secondo anno dell’Università di Harvard, ha lanciato in rete un nuovo sito web: il suo nome era Facebook. Quel momento ha segnato l’avvento di una nuova modalità di comunicazione, quella che avviene utilizzando i social network, un modello che oggi fa parte della nostra quotidianità e dal quale, in una certa misura, siamo un po’ tutti dipendenti.

Dopo quindici anni passati a stretto contatto con Facebook, Instagram e Twitter ci siamo abituati a relazionarci con il prossimo utilizzando cuoricini, like ed emoji vari ed eventuali, perché le parole, ormai, son un po’ come Meryl Streep per Trump: overrated. Nulla di sbagliato se non fosse che ormai interpretiamo quel cuoricino, quel like o quell’emoji come un chiarissimo ed inconfutabile segnale di un flirt che, però, spesso, esiste semplicemente nella nostra fervida immaginazione.



Viviamo in una società in perenne stato di accelerazione, in cui entriamo in contatto, ogni giorno, con una miriade di persone e di personaggi, e sì, di certo non c’è né il tempo, né la voglia di corteggiare la donna o l’uomo amato scrivendo versi in endecasillabi come faceva il nostro Signore della selva oscura, Mr. Dante Alighieri, ma da lì a pensare che un paio di reaction ad un selfie possano sostituire un dialogo fatto di vere domande e di vere risposte, beh, ce ne vuole!

Basta fare un giro sulle “Home” dei social più famosi per leggere screen di conversazioni in cui uno dei due soggetti si lamenta di essere stato scarsamente considerato in seguito, per esempio, a ben tre fuocherelli consecutivi. Non sarà che stiamo, alla lunga, dimenticando come si chiacchiera? Come si dimostra curiosità ed interesse verso il prossimo? Come provarci con la persona che ci piace?



Senza voler necessariamente scomodare Bauman e la sua teoria dell’amore liquido, quel che appare ormai ovvio è che sia necessario recuperare alcune vecchie sane abitudini che, fino ad una decina di anni fa, erano ancora parte integrante del concetto di “normalità”. Ecco, magari mettere lo smoking, comprare una rosa rossa, e fare come Richard Gere in “Shall We Dance?” è sicuramente too much, soprattutto al primo incontro, ma se ricordassimo che ogni social network è solo uno strumento di comunicazione, e non di certo un prolungamento della nostra personalità, sicuramente assisteremmo ad approcci ben più edificanti e più ricchi di proposizioni subordinate, rispetto ai soliti «a o p?», «ospiti?» o, peggio ancora, al tremendo, spaventoso ed ineguagliabile «Ciao, ai foto?», rigorosamente senza quella povera “h” che, atterrita tanto quanto noi, deven tremando… muta.

 

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