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Giovani LGBT+: terapie riparative raddoppiano il rischio di suicidio

La cronaca e gli attivisti LGBT+ ce lo suggeriscono da tempo, ma ora c’è un rigoroso studio scientifico a stabilirlo: i giovani omosessuli, bisessuali e transgender hanno il doppio delle probabilità di tentare il suicidio se sottoposti alle terapie riparative, note anche come terapie di conversione. Se poi si considerano i tentativi di suicidio multipli, tale probabilità è di due volte e mezzo rispetto ai coetanei che non vengono sottoposti a queste “cure” non riconosciute dalla comunità scientifica.

La ricerca è stata pubblicata ieri, 8 luglio, sull’American Journal of Public Health dopo una peer review, ed è il primo studio che analizza la relazione tra i suicidi dei giovani LGBT+ e le terapie riparative. I dati sono stati raccolti nel 2018 tramite un questionario online rivolto ai giovani LGBT+ degli Stati Uniti tra i 13 e i 24 anni.

Secondo gli scienziati di The Trevor Project che hanno condotto lo studio, «le elevate probabilità di suicidalità osservate tra i giovani individui LGBTQ esposti alle terapie terapie sottolineano gli effetti dannosi di questa pratica non etica in una popolazione che già presenta rischi significativamente maggiori di suicidalità».

Dall’indagine è emerso che il 7% di intervistati era stato sottoposto a cure per guarire dal proprio orientamento sessuale o dalla propria identità di genere, un dato che è addirittura maggiore dell’allarmante 4% che era emerso da un sondaggio che alcune settimane fa abbiamo rivolto ai nostri lettori. Un altro fatto comune è che la maggior parte delle volte, ovvero in 4 casi su 5, è un leader religioso a condurre la cosiddetta “terapia”.

È stato inoltre riscontrato che le terapie di conversione sono più frequenti per le persone con basso reddito familiare, quelle provenienti dagli Stati del Sud o dai Paesi latini, e i figli di genitori credenti la cui religione sostiene cose negative sull’essere LGBT+. I ragazzi transgender e non-binary sono, inoltre, più esposti rispetto a quelli omosessuali e bisessuali.

Vietare le terapie riparative in Italia

Mentre in alcuni Paesi dell’America Latina, ma anche in Germania e in Albania, le terapie riparative sono state vietate, in Italia sono tutt’ora legali e addirittura promosse su internet da note associazioni “pro life”, le stesse che si battono contro l’approvazione del disegno di legge contro l’omotransfobia.

Basta googlare le parole “terapie riparative” per trovarsi di fronte a una pagina web – prima nell’elenco grazie alla sponsorizzazione – che sostiene che tali “cure” funzionino, sebbene siano ritenute da tempo pericolose dall’OMS, dall’American Psychiatric Association e dall’Ordine degli Psicologi Italiani.

Ci sono poi pagine Facebook di «ex gay» che, senza alcuna fonte o credibilità, parlano di persone gay o trans con l’AIDS morte e resuscitate, e pastori che distribuiscono volantini per strada in cui viene affermato che è possibile “guarire” dall’omosessualità o dalla transessualità attraverso la preghiera.

Qualcosa, fortunatamente, si muove anche nel nostro Paese. Lo scorso 10 maggio, Possibile LGBTI+ ha presentato una lettera ai ministri Speranza, Bonetti e Lamorgese affinché si segua la Germania e si approvi anche in Italia una norma di questo tipo, raccogliendo le firme di numerose attivisti, associazioni e realtà di varia natura (tra cui NEG Zone). È stata lanciata anche una petizione, che vi invitiamo a firmare su AllOut.

Il divieto alle terapie riparative potrebbe però arrivare in Italia prima del previsto, grazie a un emendamento, all’interno del ddl Zan che è stato depositato la settimana scorsa in Commissione Giustizia alla Camera. A tal proposito, Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay, ha dichiarato a Open: «Questa legge andava fatta 25 anni fa, adesso finalmente dopo tanti “non è il momento” torniamo a parlarne. Cosa manca? Una norma che punisca le “teorie riparative”».

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